Conto XXVI Inferno – Ulisse – Testo e parafrasi



Conto XXVI Inferno – Ulisse – Testo

Il racconto di Ulisse

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;                         87
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando                      90
mi diparti' da Circe [1], che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,                              93
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,                            96
vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;                                 99
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.                          102
L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.                    105
Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov'Ercule segnò li suoi riguardi [2]                        108
acciò che l'uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra già m'avea lasciata Setta.                       111
'O frati', dissi 'che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia                                114
d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.                 117
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza'.           120
Li miei compagni fec'io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;                          123
e volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.                   126
Tutte le stelle già de l'altro polo
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.                     129
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,                     132
quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.                              135
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.                        138
Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com'altrui piacque,                   141
infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».
[1] Circe: la maga Circe trasformò i compagni di Odisseo in porci, ma l'eroe greco ottenne da lei che restituisse loro sembianze umane. Lo trattenne sulla sua isola per un anno e gli impose, prima di lasciarlo ripartire, di scendere agl'inferi.
[2] Ercole, secondo il mito, piantò le rupi di Calpe e di Abila, l'una sulla sponda europea, l'altra su quella africana, perché, segnando i limiti del mondo esplorabile, nessuno osasse oltrepassarli.

Conto XXVI Inferno – Ulisse – parafrasi

Il racconto di Ulisse.

85-142
La punta più alta dell'antica fiamma (da secoli circonda i due dannati) cominciò a scuotersi rumoreggiando
proprio come quella che il vento agita; poi, muovendo di qua e di là la punta, quasi fosse la lingua che parlava, getto fuori la voce, e disse:
"Quando mi allontanai da Circe, che mi trattenne per oltre un anno là vicino a Gaeta,
prima che Enea la chiamasse così, né la tenerezza per il figlio, né l'affetto riverente per il vecchio padre, né il dovuto amore che doveva rendere felice Penelope, poterono vincere dentro di me l'ardente desiderio che ebbi di conoscere il mondo, e i vizi e le virtù degli uomini.
Ma mi spinsi per lo sconfinato alto mare solo con una nave, e con quella esigua schiera dalla quale non ero stato abbandonato.
Vidi l'una e l'altra sponda fino alla Spagna,
fino al Marocco, e alla Sardegna, e alle altre isole bagnate tutt'intorno da quel mare (il Mediterraneo).
Io e i miei compagni eravamo vecchi e lenti nei nostri movimenti,
allorché giungemmo a quell'angusto stretto dove Ercole fissò i suoi limiti, affinché l'uomo non si avventuri oltre; lasciai alla mia destra Siviglia, alla mia sinistra ormai Ceuta (Setta: è l'antica Septa romana, sulla costa africana) mi aveva lasciato.
"O fratelli", dissi, "che avete raggiunto il confine occidentale (il mondo finiva, per gli antichi, allo stretto di Gibilterra) attraverso centomila pericoli, a questo così breve tempo che ci rimane da vivere,
non vogliate negare la conoscenza, seguendo il corso del sole, del mondo disabitato.
Riflettete sulla vostra natura:
non foste creati per vivere come bruti, ma per seguire la virtù e il sapere."
Con questo breve discorso resi i miei compagni così desiderosi di proseguire il viaggio, che a stento dopo sarei riuscito a fermarli;
e rivolta verso Oriente la poppa della nostra nave, trasformammo i remi in ali per il viaggio temerario, sempre avanzando verso sinistra.
Già la notte ci mostrava tutte le stelle dell'emisfero australe, e (ci mostrava) invece il nostro (emisfero) così basso che non si alzava al di sopra della superficie del mare.
Cinque volte si era accesa e altrettante spenta (erano passati cinque mesi) la luce che la luna mostra nella sua parte inferiore, da quando avevamo iniziato il nostro difficile viaggio, allorché ci apparve una montagna, scura a causa della distanza, e mi sembrò tanto alta come non ne avevo mai veduta alcuna.
Noi gioimmo, e subito la nostra gioia si mutò in disperazione:
perché dalla terra da poco avvistata sorse un vento vorticoso, che investì la prua della nave.
Tre volte la fece girare insieme con le acque circostanti: alla quarta fece levare la poppa in alto
e sprofondare la prua, come volle Dio,
finché il mare si richiuse sopra di noi ".



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